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Il Socio Antonio Pagliaro, illustre giurista, mancato a Palermo il 31 luglio

Date: 
Friday, 1 September 2023

 

Antonio Pagliaro era nato a Mistretta, in provincia di Messina, il 6 luglio 1932. Era figlio di Giuseppe Pasquale, magistrato che aveva sempre operato in uffici giudiziari siciliani, ma che alla fine era riuscito a trasferirsi a Palermo, in seguito ad una curiosa vicenda che lo stesso Antonio rievoca in alcuni suoi appunti di storia familiare rimasti inediti. Fra i suoi parenti e antenati si annoverano anche altre figure di magistrati, tra cui il cugino Luciano Pagliaro, nonché il grande glottologo e linguista Antonino Pagliaro, di cui Antonio era nipote.

Si laureò in giurisprudenza presso l’Università di Palermo nel 1954, discutendo la tesi in diritto penale con il prof. Giovanni Musotto, di cui divenne immediatamente assistente volontario. Nel 1961 assume l’incarico di insegnamento del diritto penale presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Messina, divenendone nel 1964 professore ordinario. Nel 1968 si trasferì alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo, assumendo nel 1972 anche l’ufficio di Direttore dapprima dell’Istituto di diritto e procedura penale, e dal 1994, del Dipartimento di scienze penalistiche e criminologiche. Nel 1978 venne nominato Direttore del Circolo giuridico «L. Sampolo» presso la Biblioteca centrale della Facoltà di giurisprudenza, e in tale veste fu lui ad avviare la collaborazione con il Centro elettronico della Suprema Corte di Cassazione sin dai primi esordi, nel 1986, dalla banca dati destinata a costituire uno dei pilastri della conoscenza e della diffusione dei documenti giurisprudenziali.

Nel 1988 fu chiamato dal Ministro della giustizia, prof. Giuliano Vassalli, a presiedere la Commissione per la riforma del codice penale, composta da un ristretto numero di giuspenalisti, cui venne affidato il compito di elaborare il testo organico e completo di un nuovo codice. I lavori si svolsero con sollecita continuità ed intenso impegno, accompagnati e diretti da una guida quella di Antonio Pagliaro per l’appunto, che si rivelò ad un tempo saggia, equilibrata e ferma. Nel 1991, all’esito dei lavori, fu consegnato al Ministro uno schema di legge-delega che, puntualizzando principi e direttive, individuava precisi contenuti normativi analitici, tali da costituire, nel loro complesso, una trama tanto fitta, organica ed esaustiva, che a definire il tessuto del nuovo codice ben poco si sarebbe dovuto assegnare all’orditura definitiva. Purtroppo, gli sviluppi politici successivi non consentirono all’iniziativa di svilupparsi secondo il progetto originario. Tuttavia, il testo redatto dalla Commissione Pagliaro rappresentò, e continua a rappresentare ancor oggi, un punto di riferimento costante e ineludibile rispetto ad ogni prospettiva di riforma.

Nel 1996 Antonio Pagliaro assunse poi il ruolo di vicepresidente nella Commissione istituita dal Ministro della giustizia, prof. Michele Caianiello, per la riforma dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, e in particolare quella dell’abuso innominato d’ufficio previsto dall’art. 323 c.p., questione già allora divenuta estremamente delicata e problematica. La presidenza della Commissione era affidata ad un insigne amministrativista, il prof. Giuseppe Morbidelli, ma il ruolo più significativamente operativo non poteva non essere riservato ai penalisti, e segnatamente al vicepresidente Pagliaro. Anche in questo caso l’esito dei lavori, pur tradotto in un testo di sagace perizia, e basato sull’articolazione della nebulosa normativa originaria in tre distinte fattispecie di puntuale tassatività, risultò deludente. Il testo adottato con il decreto-legge emanato nel 1997 non aveva assolutamente nulla da spartire con quello elaborato dalle Commissioni: si limitava in pratica a perpetuare, sotto diverse spoglie, un disagio che tuttora perdura

Nel 1998 fu ammesso tra i soci corrispondenti dell’Accademia dei Lincei, di cui divenne poi socio nazionale nel 2007. Nel 2001 ricevette il Premio internazionale “Empedocle” per le scienze umane, dedicato alla memoria di Paolo Borsellino e, nel 2015, il Premio della Fondazione Pastore. Ricoprì inoltre, nel periodo 1992-2000, l’ufficio di componente del Board of Directors dell’Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali

L’opera scientifica di Antonio Pagliaro è assai vasta, e spazia in pratica nell’intero ambito disciplinare del diritto penale, con frequenti ‘incursioni’ verso temi di carattere processualpenalistico e criminologico. La raccolta della ricca messe suoi scritti è avvenuta tempestivamente nel 2009, con la pubblicazione di quattro cospicui volumi, che, sotto il titolo comune «Il diritto penale fra norma e società – Scritti 1956-2008» si riparte in un tomo dedicato alle «Monografie di parte generale» (I), «Monografie di parte speciale» (II), «Altri scritti» (III), comprendenti saggi di parte generale, e «Altri scritti» (IV), comprendente lavori di parte speciale.

Tratteggiare in poche battute la portata e il significato dell’opera di Antonio Pagliaro non è semplice, sia per la vastità dei campi di materia coinvolti nella sua riflessione, sia per la perspicua acutezza ed originalità delle sue ricostruzioni ermeneutiche. Ma poiché Antonio Pagliaro fu lucidamente consapevole del carattere innovativo del suo pensiero giuridico e delle sue ricostruzioni sistematiche, peraltro sempre guidate a sorrette da un rigore metodologico esemplare, è possibile far tesoro delle sue stesse parole, rese nella «Presentazione» dei suoi scritti. Rinviando alla lettura di tali pagine, è tuttavia necessario soffermarsi almeno su alcune delle opere fondamentali.

La prima, fondamentale monografia dedicata a «Il fatto di reato» trova il suo nucleo ideale in un «ripensamento critico delle teorie finalistiche: bisognava depurare il finalismo subiettivo di Hans Welzel dalle incrostazioni, superflue ed erronee, del c.d. ontologismo e della diffusissima teoria penalistica della “tripartizione”, ed integrarlo con il finalismo obiettivo di Karl Engisch. Così diviene possibile un deciso abbandono della suggestione naturalistica nello studio strutturale del reato: il che, connesso ancora una volta con l’impiego rigoroso del metodo, conduce a un inquadramento del reato nello schema dei fatti giuridici, con un’apertura verso le componenti teleologiche dell’illecito. La condotta illecita, con la sua carica significativa subiettivamente posta e obiettivamente riconoscibile, si rivela allora l’elemento fondamentale del rato, comprendendo quindi non solo l’evento, ma anche il dolo e la colpa. Ancora una volta si insiste sulla carica significativa, che della condotta umana segna la tipicità penale. Tutta la dogmatica del reato ne risulta radicalmente trasformata. L’analisi non viene esclusa (come avveniva nelle inaccettabili concezioni unitarie del reato), ma è condotta su basi diverse da quelle della tripartizione».

Queste premesse concettuali, singolarmente innovative, trovano la loro trasposizione in chiave didattica nei «Principi di diritto penale», giunti nel 2020 alla IX edizione. Sul piano applicativo esse ispirano e guidano l’analisi condotta in alcune monografie successive: Il delitto di calunnia (1961), gli Studi sul peculato (1964) e La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto (1966).

Fra i numerosissimi scritti «minori» la scelta è ardua. Nella foltissima schiera, spiccano in modo particolare la ‘voce’ Immunità (diritto penale), il saggio Fatto, condotta illecita e responsabilità obiettiva nella teoria del reato, e l’articolo Imputazione obiettiva dell’evento, in cui si esamina l’allora esordiente dottrina tedesca così denominata. Di grande interesse appare anche il saggio Commisurazione della pena e prevenzione generale, dove si osserva che la prevenzione generale correttamente intesa non può e non deve essere esclusa dalla disciplina relativa alla commisurazione della pena. Molti contributi sono poi dedicati alla riforma del diritto penale, con particolare riferimento alle linee guida del Progetto di codice penale predisposto dalla Commissione ministeriale da lui presieduta.

Per quanto non espressamente riconducibile alla sua produzione scientifica occorre infine ricordare un ‘appunto’ pubblicato nel 1984 sulle Regole della citazione faziosa, il testo assume un duplice significato. Da un lato, le Regole espongono e censurano in chiave ironica prassi e consuetudini disoneste e disdicevoli nella redazione di lavori scientifici; dall’altro, costituiscono il simmetrico contrario del metodo costantemente seguito e praticato da Antonio Pagliaro lungo l’intero corso della sua intensa e feconda attività scientifica. La citazione delle prime quattro di queste Regole è sufficiente a identificarne lo spirito:

«1. Citare soltanto se stesso, gli studiosi appartenenti alla propria parte politica e gli amici personali. Il lettore deve ignorare che esistono altri studiosi.
2. Se si è costretti a citare qualche altro studioso, svisare completamente il suo pensiero, in modo da renderlo assurdo. Il lettore deve credere che non valga la pena esaminare direttamente i testi.
3. Se il pensiero dell’altro studioso coincide con il proprio, omettere la citazione della fonte. Se proprio ciò non fosse possibile, inserire le citazioni fuori posto. Il lettore deve essere convinto che il primo a scrivere cose sensate è l’autore stesso del testo.
4. Per confutare le opinioni altrui, quando non si sa come farlo, basta inserire una frase del tipo «la erroneità di queste proposizioni è stata dimostrata definitivamente da Tizio» e rinviare alle opere di questi, senza riassumere le argomentazioni. Meglio ancora, se l’opera di Tizio è in edizione provvisoria o addirittura non pubblicata, e quindi è inaccessibile al lettore normale.»

Questo limitato ‘assaggio’ riporta all’ultimo (ma non ultimo) argomento da cui rievocando la figura e l’opera di Antonio Pagliaro, non è possibile in alcun modo prescindere: la sua personalità umana. Era un uomo di studi con gli occhi bene aperti sul mondo, schivo ma non chiuso, riservato ma accogliente, ironico ma comprensivo, rigoroso ma aperto al dialogo e al confronto, tollerante ma non acquiescente. Aveva un eloquio scarno e pacato, quasi dimesso, ma al contempo essenziale, lucido ed incisivo. Il suo stile era sobrio, discreto il suo tratto, antica la sua eleganza; accompagnavano un’onestà intellettuale e un’integrità morale di nobile lignaggio.

 

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