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Un francobollo con Il Trionfo di Galatea di Villa Farnesina

Date: 
23/07/2020

Il Trionfo di Galatea di Villa Farnesina è una delle immagini utilizzate su uno dei quattro francobolli, emessi lo scorso 20 luglio 2020, racchiusi in un foglietto e appartenenti alla serie tematica “il Patrimonio artistico e culturale italiano” dedicati a Raffaello Sanzio, nel V centenario della scomparsa.
Il foglietto è stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, i bozzetti sono a cura di Tiziana Trinca e del Centro Filatelico della direzione Operativa dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.

 

Le vignette dei quattro francobolli riproducono rispettivamente un’opera di Raffaello Sanzio e precisamente, partendo dall’alto, da sinistra a destra:

Trionfo di Galatea
La Loggia di Galatea, dal nome della ninfa che Raffaello affrescò sulla parete di ingresso, si presenta oggi come una grande sala dal soffitto e dalle pareti dipinte. All'epoca di Agostino Chigi, il banchiere senese di papa Giulio II e committente della Villa Farnesina, nel Cinquecento detta “Palazzo del Giardino”, questo ambiente, usato per feste e banchetti, era noto come “Loggia del giardino” perché la parete est era aperta sui giardini in corrispondenza delle arcate, tamponate solo attorno alla metà del XVII secolo, quando la villa apparteneva alla famiglia Farnese. Alla stessa epoca risalgono anche le scene paesaggistiche dipinte sopra le finestre e sulla parete ovest.
Raffaello è l'autore della Galatea, raffigurata a sinistra della porta di ingresso. Nel riquadro accanto vi è il Polifemo del giovane Sebastiano del Piombo, che Agostino conobbe a Venezia come allievo di Giorgione e invitò a Roma per lavorare nella villa. Anche le lunette sono opera di Sebastiano del Piombo, con la sola eccezione di quella con una “Testa di giovane”; esse, con la sola esclusione di Giunone, simboleggiano le passioni umane. Così sopra al Polifemo e con l'intento di ribadire la sua sfrontatezza nel corteggiare la bella ninfa si fanno spazio Dedalo ed il figlio Icaro, che ignorate le raccomandazioni del padre si avvicina al sole con le sue ali di cera, le quali irrimediabilmente si sciolgono lasciandolo cadere a terra.
Baldassarre Peruzzi, architetto della villa, è l'autore degli affreschi della volta, articolati in un complesso ciclo pittorico che illustra l'oroscopo di Agostino Chigi. I gruppi figurati, composti da personaggi della mitologia classica, sono utilizzati per dare forma a costellazioni e pianeti e le posizioni reciproche di questi soggetti, collocati all'interno di esagoni e vele e di due riquadri centrali, corrispondono alla situazione astronomica verificatasi nel giorno della nascita del banchiere. Negli esagoni sono raffigurate le posizioni delle costellazioni rispetto ai pianeti, mentre le vele contengono singole costellazioni. Le due grandi scene orizzontali illustrano il mito di Perseo a sinistra e quello di Callisto trasformata nella costellazione dell’Orsa Maggiore a destra.
Giorgio Parisi
Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei
 
Autoritratto
Raffaello è celebrato, ancora in vita, come artista universale.
La sua morte, avvenuta a Roma nel 1520, a soli trentasette anni, fu subito accompagnata da leggende che avvicinavano il destino del maestro a quello di Cristo.
Dell’artista si elogiavano non solo le doti artistiche ma anche umane. Giorgio Vasari nelle Vite così scrive: “ in lui risplendevano tutte le più rare virtù dell’animo accompagnate da tanta grazia, studio, bellezza, modestia ed ottimi costumi…” e poi ancora “egli arricchì l’arte della pittura di quella intera perfezione che ebbero anticamente le figure di Apelle e di Zeusi”.
Lo storiografo aretino paragona Raffaello ai pittori più famosi dell’antichità classica, ma non solo.
Ne ricorda infatti le qualità personali e intellettuali che, oltre allo straordinario talento, avevano fatto sì che egli fosse accolto con tutti gli onori alla corte pontificia, dove gli venne affidata la grande impresa di affrescare le Stanze Vaticane.
Le Gallerie degli Uffizi possiedono il più alto numero al mondo di dipinti autografi di Raffaello e fra questi anche il suo autoritratto giovanile, risalente al 1506 circa: nella splendida tavola i toni sobri impiegati fanno risaltare i grandi occhi scuri, i lineamenti delicati del viso, il collo lungo.  L’artista ci guarda con un atteggiamento naturale e gentile, quasi sognante, ma la scelta di rappresentarsi con una semplice casacca nera e il cappello floscio, tipici dei pittori, è un segnale di fierezza per il suo lavoro e per il suo status.
L’autografia del quadro è stata confermata dal restauro e dalle indagini diagnostiche compiuti in occasione della mostra “Raffaello a Firenze” del 1983. Conosciamo un solo altro autoritratto dell’artista, di qualche anno successivo, nell’affresco con La Scuola di Atene nella Stanza della Segnatura in Vaticano (del 1510 – 1511): quello degli Uffizi è pertanto una testimonianza preziosa dell’aspetto del giovane artista nel momento in cui risiedeva a Firenze.
L’opera faceva parte, nel 1663, della celebre collezione dei “Ritratti di pittori fatti di loro propria mano”, iniziata dal cardinale Leopoldo de’ Medici e poi allestita agli Uffizi dal granduca Cosimo III, nipote del cardinale. Questa raccolta, unica al mondo, conta oggi oltre millecinquecento tra dipinti e sculture e continua a crescere tramite acquisti e donazioni. L’arrivo dell’autoritratto di Raffaello a Firenze si deve probabilmente a Vittoria della Rovere, figlia di Claudia de’ Medici e dell’ultimo duca di Urbino: con l’estinzione della sua casata e il matrimonio con il cugino – il granduca Ferdinando II - negli anni trenta del ‘600 la principessa urbinate portò in dote la ricchissima collezione d’arte dei Montefeltro e dei della Rovere. L’autoritratto di Raffaello dovette essere spedito ai Medici in un secondo momento, poiché nel 1652 si trovava ancora nel palazzo ducale di Urbino.
Che il dipinto fiorentino sia di mano del “divin pittore” è confermato in pieno non solo dalle indagini tecniche, ma anche dallo stile. L’attenzione ai dettagli (si noti l’orlo bianco a piegoline della camicia), ai rapporti fra luce e ombra, all’incidenza della luce sui volumi, che proiettano un’ombra sullo sfondo neutro, denota l’attenzione di Raffaello per la pittura fiamminga, molto apprezzata alla corte di Urbino dove per giunta, fino dagli anni settanta del Quattrocento, avevano soggiornato artisti del calibro di Giusto di Gand (che come dichiarato nel nome veniva dal capoluogo delle Fiandre orientali) e di Pedro Berruguete, spagnolo di origine e fortemente influenzato da Jan van Eyck.
Prof. E.D. Schmidt
Direttore Gallerie degli Uffizi
 
Madonna col Bambino
Raffaello Sanzio nacque a Urbino il 28 marzo 1483 da Giovanni Santi, umanista e pittore attivo alla corte dei Montefeltro, e Màgia Ciarla. Egli nacque in una casa che ospitava in bottega l’attività del padre e di quanti lavoravano nel suo operoso atélier. Quella Casa, acquistata a seguito di sottoscrizione internazionale dall’Accademia Raffaello, è oggi sede di un museo, aperto il 6 aprile 1873. Questo luogo della memoria, nato per custodire il mito di un pittore-simbolo, ruota intorno alla camera dove si crede che Raffaello vide la luce. A sottolineare la centralità di questa stanza, si trova qui un affresco che raffigura la “Madonna col Bambino”, che – per antica tradizione – si considera opera di Raffaello, realizzata nella sua primissima giovinezza. Nonostante il dibattito tra gli studiosi, tra i quali alcuni hanno preferito considerare questo un affresco di Giovanni Santi, ricerche accreditate hanno inserito questa prova artistica di Raffaello in quegli anni di formazione in cui si intrecciano agli insegnamenti di suo padre, quelli di Pietro Perugino, il suo primo vero maestro. In questo affresco un accenno di spazio architettonico raccoglie una Madonna con una raffinata acconciatura, dal profilo sottile e grafico, china sul Bambino abbandonato ad un sonno sereno, alla presenza della Scrittura, garante della Verità. La Casa, con il suo affresco fu acquistata nel 1635 dall’architetto Muzio Oddi, che appose sulla facciata un’iscrizione che rendesse a tutti visibile che lì, in quella piccola casa (exiguis hisce in aedibus) era nato il grande Raffaello. Benché Urbino fosse fuori dal percorso del grand tour, essa fu meta della visita dei viaggiatori; tra questi il pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres, il quale riprodusse tra i suoi appunti di viaggio del 1839 la facciata della Casa di Raffaello, significativamente con una bottega aperta al lavoro di artigiani, a ricordo di quel laboratorio in cui certamente Raffaello mosse i suoi primi passi. Insieme ad opere che richiamano l’età in cui vissero il pittore e suo padre, il Museo della Casa natale offre uno spaccato utile a misurare l’entità e la diffusione del mito e del patrimonio di immagini di Raffaello, attraverso le copie dei suoi dipinti, le falsificazioni, le attribuzioni, le traduzioni in maiolica e in incisioni, e attraverso una lettura tutta intrisa dello storicismo ottocentesco, che ne fa l’archetipo della grazia. Tra i cimeli sono anche un calco del teschio rinvenuto a Roma entro la sepoltura al Pantheon e parte delle sue ceneri, a memoria del culto e della venerazione di cui fu oggetto persino la tomba di Raffaello. Nella Casa di Raffaello è la sede dell’Accademia Raffaello, fondata nel 1869 dal conte Pompeo Gherardi e tuttora attiva; essa sin dagli esordi ha raccolto sotto il motto “onoriamo le arti!” i più importanti intellettuali italiani e stranieri, artisti, letterati, musicisti.
Luigi Bravi
Presidente dell’Accademia Raffaello - Urbino 
 
Sposalizio della Vergine
Quando nel 1504 dipinge lo Sposalizio della Vergine, poco prima di trasferirsi dall’Umbria a Firenze, Raffaello è poco più che ventenne, ma ha alle spalle una formazione fuori dal comune.
Figlio di Giovanni Santi, pittore dei Montefeltro e uomo di lettere, fin da bambino egli ha un accesso privilegiato all’ambiente artistico della corte urbinate. Sebbene minorenne, risulta magister nel 1500, quando con Evangelista di Pian di Meleto riceve la commissione della pala Baronci per Sant’Agostino a Città di Castello. Nel 1502 è in rapporto con Bernardino Pintoricchio, con il quale collabora a Siena nella Libreria Piccolomini e nella perduta pala Sergardi per San Francesco; all’inizio del 1503 risiede a Perugia. Nelle opere dei primi anni del Cinquecento appare aggiornato sui protagonisti della pittura umbra del momento: oltre a Pintoricchio, Luca Signorelli e Pietro Vannucci detto il Perugino. La notizia di un alunnato presso quest’ultimo, data da Vasari (1550), non trova riscontri, ma il Perugino, in questi anni all’apice della fama, è per Raffaello un termine di confronto dichiarato. Committente dello Sposalizio della Vergine è il notaio Filippo Albizzini, che nel 1501 aveva ottenuto il patronato della cappella di San Giuseppe e del Nome di Cristo in San Francesco a Città di Castello, impegnandosi a dotarla di ogni ornamento. Il soggetto è frequente fra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, quando fioriscono confraternite dedicate al Santo. Il modello diretto è un’opera del Perugino, recentissima e celebre anche per la prestigiosa collocazione: la pala per la cappella che custodiva la reliquia del Sacro Anello nel Duomo di Perugia (1501-1504, ora al Musée des Beaux Arts di Caen). Raffaello dà prova di avere assimilato lo stile del maestro umbro e al tempo stesso di essere capace di realizzare una composizione dall’effetto all’apparenza più naturale, grazie a un’eccezionale padronanza della prospettiva e ad una costruzione geometrica assai sofisticata. Firma e data sono scritte in eleganti caratteri romani sul cornicione e ai lati dell’arco centrale del portico del Tempio. Nessun’altra opera di questa fase ricorda altrettanto ciò che Baldassarre Castiglione, futuro amico di Raffaello, scriverà nel Cortegiano a proposito della formazione dell’uomo di corte ideale, che deve saper scegliere un maestro di alta levatura e imitarlo fino all’immedesimazione, per poi progredire passando a un altro modello.
Lo Sposalizio lascia Città di Castello nel 1798. Stando a quanto scrive il bresciano Teodoro Lechi al padre Faustino, gli abitanti stessi lo avrebbero donato a suo fratello, il generale napoleonico Giuseppe, appena entrato in città. Morto il conte Faustino nel 1800, inizia la dispersione della collezione Lechi. Il dipinto è venduto a Milano a Giacomo Sannazzaro, che verosimilmente lo dota della bella cornice neoclassica e che nel 1804 lo lascia in eredità all’Ospedale Maggiore. Il 5 aprile 1806 è acquistato per la Pinacoteca di Brera su decreto di Eugène de Behauarnais, viceré del Regno d’Italia.
Cristina Quattrini
Storica dell’arte della Pinacoteca di Brera
Categoria: 
istituzionale